La clinica dell’ aids a Ouagadougou

· Inserito in Bertelli, Spazio aperto
Pino Bertelli

PIOMBINO 15 set­tem­bre 2014 —  Il Burk­i­na Faso è tra i più poveri pae­si del mon­do e tra i più col­pi­ti dal­la pan­demia da HIV/AIDS. Su una popo­lazione di poco più di 14 mil­ioni di abi­tan­ti, l’U­NAIDS sti­ma che qua­si 500.000 siano sieropos­i­tivi e che la mor­tal­ità lega­ta all’AIDS si attesti oltre i 40.000 decessi/anno. Qua­si il 3% delle ges­tanti sono HIV pos­i­tive e, ogni anno, cir­ca 18.000 neonati sono a ris­chio di trasmis­sione del­l’HIV. Sul­la base di queste stime, in Burk­i­na Faso l’HIV infet­terebbe quin­di ogni anno tra i 5.000 d i 9.000 bam­bi­ni. Le reali dimen­sioni del fenom­e­no non sono però conosciute: la man­can­za di offer­ta di cure per i bam­bi­ni con AIDS dis­in­cen­ti­va il ricor­so delle loro famiglie alle strut­ture san­i­tarie e i pro­gram­mi di pre­ven­zione del­la TMB (trasmis­sione madre-bam­bi­no) non preve­dono prog­et­ti di sen­si­bi­liz­zazione per lo screen­ing del­l’HIV durante la gravi­dan­za.
Ques­ta clin­i­ca per curare l’HIV/AIDS è alla per­ife­ria di Oua­gadougou (cap­i­tale del Burk­i­na Faso)…è gesti­ta dai padri com­bo­ni­ani e accoglie cris­tiani, musul­mani, animisti…sovente è sta­ta assalta­ta, depre­da­ta e alcu­ni padri han­no per­so la vita…è un crim­ine con­tro l’u­man­ità e va denun­ci­a­to.

pag 19

pag 31

FOTO AIDS PAG 33

pag 36

FOTO AIDS PAG 39

pag 43

( Per con­sultare l’in­tero reportage clic­ca qui)

 

 

SULLA FOTOGRAFIA DI STRADA

Sul­la filosofia dell’angelus novus e del­la soci­età che viene

anco­ra a Pier Pao­lo Pasoli­ni, ami­co e mae­stro

per­ché i suoi accat­toni indife­si, le sue put­tane infe­li­ci,

e la meglio gioven­tù che è anda­ta a com­bat­tere

una guer­ra di Resisten­za con uno strac­cet­to rosso al col­lo…

sono angeli nec­es­sari a com­pren­dere l’amore per­du­to

di una dolente uman­ità e la con­quista delle prossime

pri­ma­vere di bellez­za al can­to di “Bel­la ciao”…

Un figlio nato lon­tano, nel mon­do dei borgh­e­si,

con in mano la bandiera del­la Novità, sco­laro del­lo Scan­da­lo,

erede del­la Riv­o­luzione, è mor­to di amore

per un mon­do di foglie bag­nate dal­la piog­gia,

e non ha trova­to mai nul­la di più dolce di quel tornare dei Padri nei Figli”.

Pier Pao­lo Pasoli­ni

La teolo­gia del­la lib­er­azione che cer­ca di par­tire dall’impegno

per abolire l’attuale situ­azione d’ingiustizia

e per costru­ire una soci­età nuo­va, deve essere ver­i­fi­ca­ta

dal­la prat­i­ca del­lo stes­so impeg­no…

Tutte le le teolo­gie politiche del­la sper­an­za, del­la lib­er­azione,

del­la riv­o­luzione, non val­go­no un gesto di sol­i­da­ri­età con gli uomi­ni,

con le clas­si e con i popoli oppres­si”.

Gus­ta­vo Gutier­rez

L’uomo nasce libero ed ovunque è in catene”

J‑J. Rousseau

I. Ouver­ture in for­ma di rosa

Mio padre e mia madre mi han­no inseg­na­to ad amare il diver­so, il povero, l’escluso e mi dice­vano vici­no al fuo­co, men­tre il pesce azzur­ro arrosti­va nel sale, che nes­suno può com­prare un sor­riso… e anco­ra… una mosca quan­do muore sof­fre quan­to un re… e quan­do fug­gi­vo sul tet­to a guardare le stelle, a cer­care la regi­na degli strac­ci sul­la Via Lat­tea o i brig­an­ti del libero sor­riso e del coltel­lo facile — “Fai quel­lo che vuoi, ma quel­lo che fai fal­lo con amore… per­ché quand’anche aves­si tut­ti i mari e i cieli del­la ter­ra, e tut­to l’onore degli uomi­ni, se non ho l’amore non sono niente —… e quan­do pen­so a mio figlio e ai figli suoi che mi stringono le dita e gio­cano con me a guardie e ladri… pen­so a tut­ta la cat­tive­ria alla quale andran­no incon­tro, alla medi­oc­rità, alla rapac­ità, alla vio­len­za del­la quale è capace una grande parte dell’umanità ric­ca… è a quei bam­bi­ni che pen­so e ai poveri del­la ter­ra… e allo­ra sog­no di andare a costru­ire un mon­do in cui ogni uomo, sen­za eccezione di raz­za, di reli­gione, di nazion­al­ità… pos­sa vivere una vita pien­amente umana, lib­er­a­ta dalle schi­av­itù che gli ven­gono da altri uomi­ni… fuori dall’amore non c’è salvez­za.

La Teolo­gia del­la fotografia di stra­da (che fac­ciamo nos­tra) si riconosce nel­la ped­a­gogia degli oppres­si che unisce teo­ria e pras­si e sec­on­do l’insegnamento di Paulo Freire, tende a mod­i­fi­care la relazione tra l’uomo oppres­so e l’ambiente che lo cir­con­da. La coscien­za crit­i­ca del­la fotografia di stra­da come teolo­gia di lib­er­azione, tro­va un suo lin­guag­gio e diven­ta essa stes­sa icona o trac­cia di trasfor­mazione rad­i­cale del­la soci­età ingius­ta. “Indica­mi qual­cuno che ami ed egli com­pren­derà quel­lo che sto dicen­do. Dam­mi qual­cuno che desideri, che cam­mi­ni in questo deser­to, qual­cuno che abbia sete e sospiri per la fonte del­la vita. Mostra­mi ques­ta per­sona ed ella saprà quel­lo che voglio dire” (Agosti­no, il berbero).

La teolo­gia del­la fotografia di stra­da si oppone alla vio­len­za isti­tuzion­al­iz­za­ta e non si scan­dal­iz­za che con­tro la vio­len­za ingius­ta degli oppres­sori, pos­sa sorg­ere la vio­len­za gius­ta degli oppres­si. Quan­do l’ingiustizia ha pos­to al suo servizio la legal­ità, l’ordine, il diniego… le clas­si povere pri­vate del dirit­to alla voce, alla dig­nità, alla pre­sen­za… alla fotografia di stra­da non res­ta che lavo­rare per un’educazione lib­er­a­trice e pas­sare dalle con­dizioni di vita inu­mane a con­dizioni più umane, con ogni mez­zo nec­es­sario.

La teolo­gia del­la fotografia di stra­da esprime — sot­to ogni for­ma estetica/etica— la denun­cia dell’ingiustizia e dele­git­ti­ma il sangue ver­sato e rimas­to impuni­to dell’ordine dom­i­nante. È l’amore dell’uomo per l’uomo che lib­era gli schi­avi, fa crol­lare gli imperi e soll­e­va gli oppres­si. Il silen­zio o l’accettazione del­lo sfrut­ta­men­to dei deboli da parte dei poten­ti, pas­sa attra­ver­so il con­sen­so mass­me­di­ati­co e le preghiere di ster­minio sono deposte sug­li scaf­fali dei super­me­r­cati e nei par­la­men­ti… si trat­ta di coglier­si come uomi­ni plan­e­tari non anco­ra real­iz­za­ti che rifi­u­tano di vivere in una soci­età alien­ata e si schier­a­no a fian­co degli esclusi. La lib­er­azione degli affamati, degli offe­si, degli umil­iati… è pri­ma di ogni cosa un atto politi­co. È la rot­tura con una realtà di sfrut­ta­men­to e di povertà estrema, l’inizio del­la costruzione di quel­la soci­età gius­ta e fra­ter­na che molti uomi­ni, molte donne ten­gono nel cuore. La lib­er­azione degli oppres­si pas­sa dal­la dife­sa dei dirit­ti fon­da­men­tali dei poveri, il cas­ti­go degli oppres­sori e la resti­tuzione dei beni che han­no loro sot­trat­to in sec­oli di ves­sazioni, sac­cheg­gi e geno­ci­di.

La teolo­gia del­la fotografia di stra­da non ha altra bellez­za se non quel­la di aiutare a spez­zare le catene del­la mal­vagità, sciogliere i lega­mi del gio­go, dare lib­ertà agli oppres­si… dividere il tuo pane con l’affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo sim­i­le, dice­va Isa­ia, è ricor­dare ad ogni essere umano che la lib­er­azione aut­en­ti­ca sarà opera degli oppres­si o non sarà. Una teolo­gia del­la sper­an­za è, nel con­tem­po, una teolo­gia del­la risor­gen­za o dell’insurrezione. Non c’è sto­ria del­la polit­i­ca se non c’è sto­ria del­la lib­ertà.

La teolo­gia dell’utopia pos­si­bile è il can­to più estremo del­la lib­er­azione dell’uomo da se stes­so. L’utopia non è solo il sog­no di uguaglian­za nel­la diver­sità e godi­men­to dei beni comu­ni, che non prevede nel­la sua affab­u­lazione né servi né padroni… l’utopia è anche una denun­cia dell’ordine esistente e l’eresia più conc­re­ta che sta al fon­do dell’utopia è rifi­utare la bru­tal­ità dei val­ori cor­ren­ti e annun­cia­re le “pri­ma­vere di bellez­za” che saran­no e che anco­ra non sono… il pre­sa­gio di una comu­nità dif­fer­ente e di una dif­fer­ente soci­età di armo­nia. La teolo­gia del­la fotografia di stra­da lavo­ra sull’immaginario lib­er­a­to. Il pas­sag­gio dal­la poe­sia alla vita quo­tid­i­ana impone un salto di qual­ità, una rot­tura con l’ordine dell’ingiustizia, l’intervento dell’immaginazione con­tro i dis­eg­ni salv­i­fi­ci del­la civiltà del­lo spet­ta­co­lo e dice: la mia paro­la è no!

La Teolo­gia del­la fotografia di stra­da o di lib­er­azione dell’immaginario assogget­ta­to… esprime una poet­i­ca che include il pun­to di vista dei poveri. La Teolo­gia del­la fotografia di stra­da è anche una teolo­gia dei dirit­ti umani che dis­vela il sis­tema dei poteri politi­ci e mostra che la polit­i­ca colo­niale è figlia del­la polit­i­ca indus­tri­ale. Non esiste nes­sun uso inno­cente dell’immagine e del­la lib­ertà. Potere sig­nifi­ca oppres­sione, dom­i­nazione, costrizione. La democrazia dell’uguaglianza ha per fine la parte­ci­pazione degli uomi­ni alla vita comune. In una soci­età di liberi e uguali cias­cuno è l’espressione del­la pro­pria capac­ità di amare l’altro… ed è parte fon­dante del­la soci­età di mutuo soc­cor­so alla quale aspi­ra.

La Teolo­gia del­la fotografia di stra­da emerge dal­la lezione eti­ca di poeti del dis­a­gio roves­ci­a­to come Riis, Hine, Sander, Vis­ch­ni­ac, Capa, Mod­ot­ti, Smith, Carti­er-Bres­son, Lange, Evans, Shahn, Arbus, Weegee, Frank, Koudel­ka, Sal­ga­do… con­tiene una teo­ret­i­ca del­la dis­si­den­za che si scon­tra con l’ortodossia o sovra-iden­tità delle democra­zie del­lo spet­ta­co­lo che dis­trug­gono lega­mi sociali e sep­pel­lis­cono cul­ture e mem­o­rie storiche. “Un popo­lo che ven­ga gen­eral­mente mal­trat­ta­to con­tro ogni dirit­to non deve las­cia­r­si sfug­gire l’occasione in cui può lib­er­ar­si delle pro­prie mis­erie, scuo­ten­do il pesante gio­go che gli viene impos­to con tan­ta ingius­tizia… dimod­oché le riv­o­luzioni… non si ver­i­f­i­cano in uno Sta­to per colpe leg­gere commesse nell’amministrazione degli affari pub­bli­ci… Quan­do in realtà si ver­i­f­i­cano colpe gravi, il popo­lo ha il dirit­to di resistere e difend­er­si” (Han­nah Arendt)1. Ogni for­ma di riv­o­luzione è sem­pre in pri­mo luo­go dis­truzione dell’antico regime.

La fotografia, tut­ta la fotografia, “por­ta il suo ref­er­ente con sé” (Roland Barthes) e quan­do è grande, coglie il sig­nif­i­cante fotografi­co. La cat­ti­va fotografia mar­cisce di banal­ità splen­den­ti e per­mea l’oggetto del­la sua atten­zione nel­la cel­e­brazione del mon­dano (Stieglitz, Ste­ichen, White, Kühn, New­ton, Hamil­ton, von Gloe­den, Ara­ki, Lachapelle, Warhol e la qua­si total­ità del­la fotografia ital­iana…). Ogni fotografia è una trac­cia del­la pro­pria cul­tura o del­la pro­pria stu­pid­ità. A leg­gere le opere dei gran­di maestri si com­prende che la Fotografia non si ric­on­cil­ia con la soci­età nel mito spet­ta­co­lar­iz­za­to ben­sì ne smaschera le brut­ture o l’effimero. La sto­ria del­la fotografia come stu­pore, riman­da al cam­bi­a­men­to del luo­go comune e fa del dolore degli altri (direbbe Susan Son­tag), l’istante di un’adesione o, meglio anco­ra, il vero bene, che è un atto morale. Sco­prire il nos­tro non-sapere nell’uguaglianza del sen­tire è un gesto d’accoglienza. La fotografia randa­gia (o di stra­da) accetta i pro­pri lim­i­ti e get­ta uno sguar­do rad­i­cale al di là del vis­i­bile. La fotografia di stra­da è deside­rio di qual­cosa che non si possiede e a cui si aspi­ra… rifi­u­ta i sim­u­lacri che riconoscono la polit­i­ca, la fede o la cul­tura come cri­teri del suc­ces­so che legit­ti­mano la sola felic­ità pos­si­bile nel­la soci­età data. La fotografia di stra­da cus­todisce lo sguar­do, come il ribelle l’utopia, l’una e l’altro sono deposi­tari dell’indicibile e l’attimo del­la loro dis­erzione da tut­to quan­to è mer­ce o ide­olo­gia, seg­na l’interrogazione dell’ordine cos­ti­tu­ito.

La fotografia di stra­da o quel­la più gener­i­ca­mente di “impeg­no sociale”, coglie ciò che emerge dall’apoteosi dell’apparenza. In questo sen­so, tut­ta la fotografia non addo­mes­ti­ca­ta è una sor­ta di denun­cia del quo­tid­i­ano aggred­i­to e lavo­ra alla sovver­sione dell’immagine, del­la paro­la, del­la legge (dell’imposizione dei cod­i­ci dom­i­nan­ti)… la fotografia che affronta il sangue dei giorni pas­sa attra­ver­so l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si pre­sen­ta sovente come lin­guag­gio roves­ci­a­to. La fotografia esiste per rompere l’egemonia del­la quo­tid­i­an­ità impov­eri­ta o per pro­l­un­gar­la, dice­va.

La fotografia di stra­da ha la capac­ità stra­or­di­nar­ia di spac­care il tem­po del­la repli­ca, di lib­er­are il tem­po fer­tile del fal­cia­re ciò che è sta­to colti­va­to e divam­pa dal­la brace del­la sovver­sione dei generi. Niente è sacro, tut­to si può pro­fanare. L’istante inchioda­to dal­la fotografia nel­la sto­ria dell’uomo è paro­la, strap­po, dis­af­fezione con il silen­zio pro­l­un­ga­to del dire… non c’è fotografia del sociale se non al prez­zo d’una rin­un­cia… la fotografia come dis­truzione dell’immaginario edul­co­ra­to è una sem­i­na­gione di bellez­za, un seg­no ever­si­vo, una mag­nifi­ca osses­sione che traval­i­ca i lim­i­ti del­la realtà ecces­si­va o un’audacia vision­ar­ia che sbor­da fuori dai con­fi­ni improvvisati del­la gen­u­f­les­sione artis­ti­ca. C’è eter­nità solo nel deside­rio, nel piacere, nel­la pas­sione dei bas­tar­di sen­za patria che vivono e muoiono al di qua o al di là di tutte le fron­tiere, per­ché san­no bene che “il patri­ot­tismo è l’ultimo rifu­gio delle canaglie” (Oriz­zon­ti di Glo­ria, 1957, di Stan­ley Kubrick). La fotografia di stra­da arrossa la ver­gogna del potere e mostra il divenire dell’umanità in un leta­maio.

II. Del­la fotografia di stra­da

La fotografia muore di fotografia. La fol­lia per la bel­la fotografia nasce da una cat­ti­va edu­cazione all’immagine che l’impero dei mass-media ha dis­per­so nell’immaginario col­let­ti­vo. L’ignoranza dei fotografi (specie i più for­ag­giati dalle marche di foto­camere, dalle gal­lerie del mon­dano o dalle aziende di cal­en­dari) è abissale. Cre­dono di sapere tut­to sul val­ore degli attrezzi di lavoro, sulle sen­si­bil­ità delle pel­li­cole, sull’avanzare del dig­i­tale nel­la pre­sa del potere del­la fotografia da parte del popo­lo… e insieme ad una marea mon­tante di squin­ter­nati che si attac­cano al col­lo, come un gio­go, la macchi­na fotografi­ca e imper­ver­sano a ogni ango­lo delle metropoli, delle cam­pagne o nei viag­gi spe­cial­iz­za­ti nel tur­is­mo ses­suale sui bam­bi­ni… non si accor­gono che la loro cecità cre­ati­va è una sor­ta di schi­av­itù e di gen­u­f­les­sione ai riti e ai cod­i­ci del­la soci­età del­lo spet­ta­co­lo.

Il gov­er­no del­lo spet­ta­co­lo, che attual­mente detiene tut­ti i mezzi per fal­si­fi­care l’insieme del­la pro­duzione nonché del­la percezione, è padrone asso­lu­to dei ricor­di e padrone incon­trol­la­to dei prog­et­ti che plas­mano l’avvenire più lon­tano. Egli reg­na ovunque; egli esegue le sue sen­ten­ze som­marie” (Guy Debord).2 La sto­ria del­la fotografia con­suma­ta non mostra l’inefficacia delle fotografie per la con­quista di un’umanità migliore, è soltan­to la som­ma delle van­ità mer­can­tili smer­ci­ate come “avven­i­men­to” artis­ti­co.3 Di con­tro, la fotografia di stra­da insorge nel­la poet­i­ca randa­gia che la fotografia inseg­na­ta non è, né conosce. La ver­ità spet­ta­co­lare man­i­fes­ta­ta nell’impostura delle ide­olo­gie e delle fedi è il teatro delle maschere, dove l’uso manipo­la­to del­la cre­ativ­ità can­cel­la la sel­vatichez­za del­la vita quo­tid­i­ana e la prin­ci­pale pro­duzione del­la soci­età attuale è lo spet­ta­co­lo. Ai quat­tro ven­ti del­la ter­ra il fal­so ha pre­so il pos­to del vero e il con­sumo delle immag­i­ni fa del cat­ti­vo uso del­la ver­ità o del­la poe­sia, la dis­truzione del­la memo­ria stor­i­ca.

Il dominio del­lo spet­ta­co­lo è ten­ta­co­lare. Arri­va ovunque e ovunque l’umanesimo del­la mer­ce si è sos­ti­tu­ito ai sogget­ti sociali. Nel tem­po dell’inganno uni­ver­sale dire dell’amore dell’uomo per l’uomo è un atto riv­o­luzionario, forse. Fuori dal­la soggezione dell’arte depos­ta nei con­fes­sion­ali dei tiran­ni e dei papi… Velàzquez, Goya o Car­avag­gio han­no mag­ni­fi­ca­to la diver­sità come ric­chez­za sociale e sostenu­to che l’arte è nel­la stra­da, e quan­do cel­e­bra il sacro o il mito soltan­to, non è che la car­i­catu­ra di se stes­sa o sem­plice gen­u­f­les­sione al potere. Carl Th. Drey­er, Georg W. Pab­st, Robert J. Fla­her­ty, Luis Buñuel, Jean Vigo o Pier Pao­lo Pasoli­ni… si sono dis­tin­ti sul­lo scher­mo argen­ta­to con la stes­sa auto­ri­al­ità dei ban­di­ti di con­fine e si sono fat­ti dis­er­tori dell’ordine cos­ti­tu­ito. Ave­vano com­pre­so che si cre­de­va di lottare per la gius­tizia, l’eguaglianza, la lib­ertà, ma nei fat­ti si lavo­ra­va alla costruzione dell’imperialismo eco­nom­i­co. In questo sen­so han­no roves­ci­a­to l’ordine dei bisog­ni e oppos­to lo sguar­do dei piac­eri fuori dal forcipe delle ide­olo­gie.

Nell’epoca del mer­ca­to glob­ale ogni guer­ra è gius­ti­fi­ca­ta dalle promesse dei gov­erni dei Pae­si ric­chi. Il geno­cidio con­tin­ua. Dopo Auschwitz, Hiroshi­ma, i gulag (nazisti, sovi­eti­ci, cine­si)… il lin­guag­gio delle armi ha pre­so il pos­to del­la ragione e i can­ti dei poeti e i pianti dei bam­bi­ni sono sep­pel­li­ti nel­la dis­truzione di mas­sa dei popoli impov­er­i­ti. I lim­i­ti eti­ci del prof­it­to non han­no con­fi­ni. I veri “nemi­ci” dell’umanità sono i rigi­di trat­tati di libero com­mer­cio, le armi nucleari, le tec­nolo­gie pro­dut­tive basate sul­la vio­len­za, l’ingegneria genet­i­ca, le guerre del petro­lio e dell’acqua, lo svilup­po del neo­colo­nial­is­mo di pace… “Il ter­ror­is­mo è la guer­ra dei poveri, la guer­ra è il ter­ror­is­mo dei ric­chi” (Frei Bet­to, dice­va). Maledette siano le guerre e le canaglie che le fan­no.

La fotografia di stra­da è una scrit­tura visuale dei cor­pi. È un viag­gio o un ritorno ver­so i val­ori dell’umanesimo, riconosciu­ti o fis­sati nel­la sto­ria in un’immagine che è in gra­do di rein­ventare l’unicità dei ritrat­tati. Lewis Hine, August Sander o Diane Arbus, lavo­ran­do su visioni diverse dell’esistente, sono giun­ti al medes­i­mo fine: non bas­ta più trasfor­mare il mon­do, per­ché esso muta di pelle con le truc­cherie e i tradi­men­ti delle politiche dom­i­nan­ti. Si trat­ta di inter­pretare adeguata­mente questo muta­men­to affinché esso non pro­d­u­ca il reg­no degli idi­oti che emerge dal­la civiltà che si autodefinisce “mod­er­na”.

La let­tera sull’”umanismo” di Mar­tin Hei­deg­ger (che va pre­sa con le dovute pre­cauzioni, data la sot­tomis­sione, mai smen­ti­ta, al nazis­mo dell’autore), lo stu­dio sul potere di James Hill­man, il trat­ta­to del saper vivere ad uso delle gio­vani gen­er­azioni di Raoul Vaneigem o la crit­i­ca rad­i­cale del­la soci­età del­lo spet­ta­co­lo di Guy Debord… dicono che “il lin­guag­gio è la casa dell’essere. Nel­la sua dimo­ra abi­ta l’uomo. I pen­satori e i poeti sono i cus­to­di di ques­ta dimo­ra. Il loro veg­liare è il portare a com­pi­men­to la man­i­fes­ta­tiv­ità dell’essere; essi, infat­ti, medi­ante il loro dire, la con­ducono al lin­guag­gio e nel lin­guag­gio la cus­todis­cono” (Mar­tin Hei­deg­ger).4 La fotografia di stra­da, dunque, ruo­ta intorno alla lib­er­azione del lin­guag­gio dal­la gram­mat­i­ca per inserir­lo in una strut­tura, fig­u­razione altra, più essen­ziale, più orig­i­nar­ia o poet­i­ca al pen­sare. Il fare-fotografia di stra­da sig­nifi­ca fis­sare la ver­ità dell’essere nel­la sua tem­po­ral­ità. Non si trat­ta di fotogra­fare l’uomo, ma di fotogra­fare questo uomo e come sta al mon­do.

La fotografia (come la macchina/cinema, la tele­vi­sione, la tele­fo­nia, la car­ta stam­pa­ta, inter­net — usa­ta mala­mente —, i gio­cat­toli o i can­noni…) esprime i luoghi e l’anima del potere e all’interno del­la teocrazia dei pro­dut­tori di con­sen­so, vive dap­per­tut­to tranne che nel­la Fotografia. La fotografia è un dio dei mes­sag­gi, del­la comu­ni­cazione, degli scam­bi com­mer­ciali, delle truf­falderie politiche… cela che tut­to quel­lo che ver­rà sarà sim­i­le a quel­lo che è già avvenu­to. La riv­ol­ta degli schi­avi è riman­da­ta. La dimen­sione del potere sub­or­di­na ogni for­ma di social­ità con le esi­gen­ze del mer­ca­to e non tiene con­to del reg­no del­lo spir­i­to, di quel volo ver­ti­cale ver­so l’emozione soli­taria che si man­i­fes­ta come lib­ertà e rispet­to dell’uomo. “Il potere spir­i­tuale può anche dormire nel vil­lag­gio e cam­minare con i lavo­ra­tori, per­ché questo genere di potere non è con­t­a­m­i­na­to dai fat­ti del­la vita. È al di sopra del denaro, al di sopra del pres­ti­gio e del­la fama. La sua autorità è supre­ma o, per meglio dire, la supre­mazia è la sua autorità” (James Hill­man).5 Andare avan­ti sig­nifi­ca andare ver­so le per­iferie invis­i­bili del­la ter­ra, ver­so la fame dei popoli mal­trat­tati, e indi­etro, ver­so il dolore degli altri.

Il lib­er­al­is­mo delle idee, stra­no a dirsi, non ha mai volu­to dire rispet­to per i dirit­ti umani dei più deboli e toller­an­za del libero pen­siero. Le politiche delle soci­età “evo­lute” han­no piani­fi­ca­to le relazioni sociali e con il clam­ore delle forche han­no impos­to un rig­ore del­la per­mis­siv­ità fon­da­ta sul­la vio­len­za e il crim­ine isti­tuzion­al­iz­za­to. “Non siamo mai usci­ti dal tem­po dei negri­eri” (Raoul Vaneigem).6 Di più. La soci­età spet­ta­co­lar­iz­za­ta non ha solo trasfor­ma­to servil­mente la percezione, ma soprat­tut­to ha fat­to del monop­o­lio dell’apparenza, la ricostruzione e il con­for­to­rio dell’illusione reli­giosa. “L’insieme delle conoscen­ze che con­tin­ua attual­mente a svilup­par­si come pen­siero del­lo spet­ta­co­lo dove gius­ti­fi­care una soci­età sen­za gius­ti­fi­cazione, e por­si come scien­za gen­erale del­la fal­sa coscien­za” (Guy Debord).7 Il sis­tema spet­ta­co­lare esprime una sot­to-comu­ni­cazione dif­fusa che smus­sa i con­flit­ti sociali e ri/produce spet­ta­tori o com­pli­ci. Quan­do alcu­ni stori­ci, gal­leristi o crit­i­ci del­la fotografia — iscrit­ti nei gaze­bi dei saperi acca­d­e­mi­ci o dell’avanguardia del vuo­to — ci han­no chiesto a cosa serve, nell’epoca del­la tec­nolo­gia satel­litare, la fotografia di stra­da, abbi­amo rispos­to — a niente, come Mozart! —.

III. Del­la filosofia dell’angelus novus

La poet­i­ca ereti­cale del­la fotografia di stra­da è una scrit­tura icono­grafi­ca del diver­so che avan­za sulle mac­erie del banale che crol­la. È la fotografia dell’angelus novus che si appro­pria del­la filosofia del­lo stu­pore di Immanuel Kant, Karl Jasper o Wal­ter Ben­jamin e con­gela lo spazio e il tem­po fuori dai “seg­ni” dell’impotenza e dell’imposizione. La realtà non nasce dal­la nos­tra coscien­za e non ha nul­la a che fare con essa. Res­ta a noi sconosci­u­ta e inconosci­bile, forse. La coscien­za è sem­pre coscien­za di qual­cosa che roves­cia le cat­e­gorie del­la conoscen­za date. Alla maniera di Gior­dano Bruno: L’atto che ci rende liberi da ogni for­ma di soggezione culturale/politica è sem­pre una rot­tura (il mis­tero del mon­do fini­to è den­tro di noi e quel­lo del mon­do infini­to — final­mente deg­no dell’Uomo — si man­i­fes­ta nel­la bellez­za che l’uomo può incon­trare nel­la natu­ra, nell’arte, nel­la sor­giv­ità dell’essere). In questo sen­so la final­ità sen­za fine di Kant s’intreccia alla lib­ertà del­lo spir­i­to di Jasper e al risveg­lio dell’esistenza di Ben­jamin. Il lin­guag­gio (in)diretto, metafori­co, casuale… del­la fotografia di stra­da figu­ra dunque, la felic­ità sof­fer­ta e quel­la pos­si­bile.

Nel fare-fotografia di stra­da, il momen­to dell’angelus novus è un colpo di dadi sul culo del­la sto­ria. Con­ferisce all’istante scip­pa­to alla par­ti­co­lar­ità del qualunque, l’aura del sin­go­lare, del­lo stra­or­di­nario, del fata­to… è una rot­tura del con­sue­to e in una specie di lot­ta amorosa tra ritrat­ta­to e fotografo, la comu­ni­cazione di un’esistenza che s’intreccia con un’altra esisten­za e tut­to ciò dà vita ad una filosofia del­la mer­av­iglia che fa dell’esperienza del lim­ite, lo strap­po con tutte le scrit­ture cifrate, decifran­dole.

Wal­ter Ben­jamin (Gar­cía Lor­ca, Paul Klee, Wal­lace Stevens, anche…) ha trat­ta­to l’avvento dell’angelus novus come forza pro­fet­i­ca che dis­vela le fig­ure delle cat­a­strofi annun­ci­ate nel­la soci­età opu­len­ta e nei gia­r­di­ni dorati dell’arte. Il Giudizio dell’angelus novus sta nel suo sguar­do rad­i­cale e nel ter­rore di ver­ità che por­ta con sé. Al cul­mine delle rovine che annun­cia, si fa forte il suo stu­pore estremo che si oppone o si chia­ma fuori non solo dai pos­ses­sori del­la sto­ria del potere ma anche da quel­li che l’adorano. Il suo mes­sag­gio riguar­da tan­to il pre­sente non con­di­vi­so, quan­to il divenire lib­er­tario ver­so il quale s’invola.8 L’angelus novus di Ben­jamin, come l’ange­lo del mer­av­iglioso di Her­bert George Wells,9 sa benis­si­mo che in ques­ta soci­età non c’è pos­to per gli angeli, tut­tavia la disce­sa degli angeli dell’arte sul­la ter­ra è una specie di spec­chio dove si riflet­tono le ingius­tizie del­la soci­età umana. Il “lievi­to” del­la ribel­lione che l’angelus novus por­ta con sé, si scaglia con­tro la civiltà del prof­it­to e dell’ipocrisia e denun­cia il rovescio dell’eterno nell’immaginale degli uomi­ni.

Cogliere l’immaginario dal vero o rubare l’istante dell’angelus novus nell’Apocalisse dell’ordinario, non è cosa facile. Hen­ri Carti­er-Bres­son, August Sander o Diane Arbus sono, forse, i soli pas­satori di con­fine, i franchi tira­tori del­la fotografia sociale che han­no pro­fana­to la for­ma pit­tor­i­ca presta­ta alla fotografia e affab­u­la­to un’etica dell’arte fotografi­ca sen­za eguali. La loro opera è lì a sot­to­lin­eare che la fotografia in for­ma di poe­sia è l’epifania del tragi­co scip­pa­ta alle mac­erie del­la sto­ria. È nel con­tem­po la doman­da e la rispos­ta dell’accadere di fronte alla foto­cam­era. Per sig­nifi­care il mon­do occorre scegliere la parte con­tro la quale stare. Fotogra­fare vuol dire tenere nel più grande rispet­to se stes­si e i ritrat­tati che abbi­amo di fronte, sen­za dimen­ti­care mai che è indeco­roso uccidere i bam­bi­ni per feb­bre di fame, anche con la fotografia.

La fotografia di stra­da è la costruzione di un per­cor­so che segue l’istinto del gat­to, l’intuizione dell’aquila, la pas­sione ereti­cale dei cuori in amore… si trat­ta di costru­ire una situ­azione in rap­por­to con quel­lo che si per­cepisce. La macchi­na fotografi­ca (per noi) è uno stru­men­to di conoscen­za e non un grazioso gio­cat­to­lo mec­ca­ni­co: “Fotogra­fare è trat­tenere il respiro quan­do tutte le nos­tre facoltà di percezione con­ver­gono davan­ti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cat­tura dell’immagine si riv­ela un grande piacere fisi­co e intel­let­tuale.

Fotogra­fare è met­tere sul­la stes­sa lin­ea di mira la tes­ta, l’occhio e il cuore” (Hen­ri Carti­er-Bres­son).10 Tut­to vero. La bellez­za del­la fotografia non addo­mes­ti­ca­ta ai lin­guag­gi dom­i­nan­ti, non è quel­la che proviene dal­lo stu­dio delle “belle arti” ma quel­la che con­travviene o si oppone all’esposizione del­la banal­ità del male. Ogni ritrat­to è un autori­trat­to. È la scop­er­ta di se stes­si per mez­zo del­la foto­cam­era e dis­cor­so sul mon­do. “Il fotografo sac­cheg­gia e insieme con­ser­va, denun­cia e insieme con­sacra” (Susan Son­tag).11 Su questi crinali esteti­ci, mai con­siderati nel­la loro reale por­ta­ta ever­si­va, la Neue Sach­lichkeit (che tra­du­ci­amo arbi­trari­a­mente in nuo­va cos­al­ità) tedesca degli anni ’20 (in modo par­ti­co­lare la fotografia di Hein­rich Zille), ha fig­u­ra­to la dig­nità del­la sof­feren­za e si è imbat­tuta una poet­i­ca del dolore che non è predazione, ma con­t­a­m­i­nazione e con­di­vi­sione fuori dal sim­bol­i­co e dal moral­is­mo d’accatto. La fotografia sociale così fat­ta, ha des­ti­tu­ito la mist­i­fi­cazione del­la realtà per destare le intem­per­anze gen­er­azion­ali e mostrare che questo non è il migliore dei mon­di pos­si­bili.

IV. Del­la soci­età che viene

La soci­età del­lo spet­ta­co­lo è con­tem­po­ranea­mente il risul­ta­to e il prog­et­to del modo di pro­duzione esistente, dice­va. La scrit­tura fotografi­ca non sfugge al ruo­lo di domes­ti­cazione sociale, quan­to al risveg­lio delle coscien­ze. Den­tro e fuori la fotografia res­ta l’uomo lib­er­a­to da ogni iden­ti­fi­cazione con il mod­el­lo dom­i­nante e la prat­i­ca dell’accoglienza, del­la fra­ter­nità e dell’uguaglianza è il non-luo­go (in utopia) dove si man­i­fes­ta l’autentico. “Forse il solo modo di com­pren­dere questo libero uso di sé, che non dispone, però, dell’esistenza come di una pro­pri­età, è quel­lo di pen­sar­lo come un abito, un ethos. Essere generati dal­la pro­pria maniera di essere è, infat­ti, la definizione stes­sa dell’abitudine (per questo i gre­ci par­lano di una sec­on­da natu­ra): eti­ca è la maniera che non ci accade né ci fon­da, ma ci gen­era. E questo essere generati dal­la pro­pria maniera è la sola felic­ità vera­mente pos­si­bile per gli uomi­ni” (Gior­gio Agam­ben)12 del­la soci­età che viene.

La fotografia di stra­da è una scrit­tura dei cor­pi. La figu­ra umana sig­nifi­ca il vero, è l’immagine che bru­cia la copia. La decostruzione del­la sim­u­lazione icono­grafi­ca for­ti­fi­ca le dif­feren­ze in dife­sa del­la dig­nità dei sen­za voce ed emerge dal gri­giore dei gran­di mag­a­zz­i­ni del­la cul­tura di mas­sa come un gri­do di vendet­ta. Lo statu­to indi­cale del­la ritrat­tis­ti­ca fotografi­ca recu­pera memo­ria e immag­i­nario, e se ne fre­ga di assumere “un’attenzione-tensione costante a ciò che è ester­no alla coscien­za indi­vid­uale, al mon­do, ovvero al «mon­do dopo la fotografia», come lo chia­ma­va Robert Smith­son”.13 Fare una fotografia è un modo per ri/scrivere la realtà, per toc­care qual­cuno che è entra­to nel nos­tro sguar­do e ha dona­to la sua ani­ma alle nos­tre carezze. Gilles Deleuze,14 Jean Bau­drillard,15 Mario Pernio­la,16 han­no bene anal­iz­za­to l’era del­la soci­età omolo­ga­ta e sono arrivati alla con­clu­sione che il cor­po è sem­pre più intrap­po­la­to nell’immagine che ripro­duce di sé e si tras­col­o­ra nell’immagine di un immag­ine: in un sim­u­lacro.

Il détourne­ment dell’arte come sim­u­lacro del­la mer­ce, esige una fat­tual­ità del piacere che incro­cia il sen­tire dei sogget­ti con la poet­i­ca dell’artista. L’arte è sta­ta al servizio dei poten­ti sul filo dei sec­oli e, sovente, la medi­oc­rità è sta­ta cel­e­bra­ta al pos­to del­la poe­sia. Il tan­fo del pres­ti­gio si bagna nell’acqua sporca del prof­it­to. Tut­to è per­me­s­so, per­ché niente è vero dell’arte mer­ci­fi­ca­ta. Il roves­ci­a­men­to dell’arte alla roves­cia pas­sa per il sof­fio cre­atore dell’utopia e solo l’innocenza e la felic­ità degli angeli ten­ta­tori han­no dis­ve­la­to nel­la sto­ria dell’arte e nel divenire dell’uomo nuo­vo, che l’arte devota alla mer­ce si por­ta dietro anche la sua putre­fazione.

Tut­ti pos­sono vedere gli angeli, i demoni, gli aiu­tan­ti nelle lacrime dei for­ti, nel sor­riso dei bam­bi­ni o nel­la mal­in­co­nia dei poeti… la deri­va dell’arte fotografi­ca ci por­ta sul Boule­vard delle pas­sioni estreme, dove ogni gesto si car­i­ca del des­ti­no degli altri e mette in relazione la fotografia con la pred­i­ca stor­i­ca dell’infamia. Nel tem­po incanagli­to del­lo spet­ta­co­lo come for­ma nor­male di delirio, “l’immagine fotografi­ca è sem­pre più che un’immagine: è il luo­go di uno scar­to, di uno squar­cio sub­lime fra il sen­si­bile e l’intelleggibile, fra la copia e la realtà, fra il ricor­do e la sper­an­za” (Gior­gio Agam­ben).17 Il giorno del giudizio è rimanda­to. Le fotografie di stra­da somigliano ai volti dei maestri car­bonari, degli angeli ribel­li o dei mes­sag­geri delle stelle che non sem­pre conoscono i con­tenu­ti delle lettere/icone delle quali sono por­ta­tori… ma saran­no pro­prio loro a non fa dimen­ti­care il per­du­to, a ritem­prare in noi il dimen­ti­ca­to, a met­ter­ci in relazione con la memo­ria popo­lare sfig­u­ra­ta sui mar­ci­apie­di del­la sto­ria e a preparare il reg­no dell’amore dove cias­cuno è principe di sé.

Dal vico­lo dei gat­ti in amore, 15 volte novem­bre 2006/ 2 dicem­bre 2012

1Citazione a memo­ria.

2Guy Debord, Com­men­tari sul­la soci­età del­lo spet­ta­co­lo, Sug­ar­co, 1990

3Pino Bertel­li, Con­tro la fotografia del­la soci­età del­lo spet­ta­co­lo. Crit­i­ca situ­azion­ista del lin­guag­gio fotografi­co, Mas­sari Edi­tore, 2006

4Mar­tin Hei­deg­ger, Let­tera sull’«umanismo», Adel­phi, 2005

5James Hill­man, Il potere. Come usar­lo con intel­li­gen­za, BUR, 2003

6Raoul Vaneigem, Trat­ta­to di saper vivere ad uso delle nuove gen­er­azioni e altri scrit­ti, Mas­sari Edi­tore, 2004

7Guy Debord, La soci­età del­lo spet­ta­co­lo, Val­lec­chi, 1979

8Wal­ter Ben­jamin, Angelus Novus. Sag­gi e fram­men­ti, a cura di Rena­to Sol­mi, con un sag­gio di Fab­rizio Desideri. Ein­au­di, 2006

9Her­bert George Wells, La visi­ta mer­av­igliosa, Mur­sia, 1996

10Hen­ri Carti­er-Bres­son, L’immaginario dal vero, Abscon­di­ta, 2005

11Susan Son­tag, Sul­la fotografia. Realtà e immag­ine del­la nos­tra soci­età, Ein­au­di, 2004

12Gior­gio Agam­ben, La comu­nità che viene, Bol­lati Borighieri, 2001

13Elio Grazi­oli, Cor­po e figu­ra umana nel­la fotografia, Bruno Mon­dadori, 2000

14Gilles Deleuze, Empiris­mo e sogget­tiv­ità, Cap­pel­li, 1981

15Jean Bau­drillard, La soci­età dei con­su­mi, Il Muli­no, 1976

16Mario Pernio­la, La soci­età dei sim­u­lacri, Cap­pel­li ‚1980

17Gior­gio Agam­ben, Il giorno del giudizio, Not­tetem­po, 2004

 

 

 

Commenta il post