La classe operaia non va nemmeno all’ isola d’ Elba
Il solo regista buono è quello celebrato dal mercato… il regista di Acciaio è Stefano Mordini, autore di pregio del cinema d’impegno civile italiano… i documentari Paz ’77 (2000), L’allievo modello (2002), Il confine (2007), Come mio padre (2009)… lo fanno conoscere come attento testimone di realtà sovente non trattate o disconosciute dall’ industria filmica del giovanilismo d’accatto… ingiustamente sottovalutato dalla critica festivaliera di Berlino, all’ uscita della sua prima opera di finzione, Provincia meccanica (2005). Un film aspro, poco incline al consenso spicciolo, costruito con inquadrature forti, buona fotografia e un montaggio serrato che aiuta non poco il bamboleggiamento dell’interprete (Stefano Accorsi), restituendo un ritratto di donna (Valentina Cervi) difficile da dimenticare. In Acciaio Mordini sembra prendere un’altra via, quella di piacere un po’ a tutti. Del resto, al fuoco del botteghino bisogna scaldarsi, per non bruciare.
Dalla velina dispensata alla 69° Mostra del cinema di Venezia riportiamo la sinossi di Acciaio: “Piombino l’acciaieria lavora ventiquattro ore al giorno e non si ferma mai. Di là, l’isola d’Elba, un paradiso a portata di mano eppure irraggiungibile. In mezzo, né di qua né di là, Anna e Francesca, tredici anni, bellissime, un’amicizia potente ed esclusiva quanto l’amore. Lo stesso amore che tiene in piedi Alessio, il fratello di Anna, operaio fino al midollo che si ostina a pensare all’unica ragazza che non può avere, il sogno della sua vita, Elena. Un giorno l’amore arriva, potente inaspettato per tutti e la vita prende un’accelerata improvvisa, finché si incrina, sanguina, si spezza.
Dietro al mondo dei ragazzi, vivono in lontananza, arresi e crudeli, i genitori, modelli a cui i figli giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai.
E sopra ognuno di loro, genitori e figli, la violenza continua dell’acciaio, che qualsiasi cosa accada, non si può fermare mai” .
Vero niente. Forse.
Dietro i paraventi della città rossa… la classe operaia di Mordini (e Avallone) non solo non va in paradiso ma nemmeno all’ isola d’Elba. È l’ultima estate prima del liceo… le ragazzine Anna e Francesca sono in preda ai primi turbamenti sessuali, ancora indecisi. Si amano, si allontanano, poi si ritrovano (proprio sulla spiaggia delle ghiaie di Portoferraio e fanno pace). La sequenza del pattinodromo resuscita la tristezza visuale (la falsa allegrezza, l’ipocrisia della tolleranza) delle fiere paesane o delle feste de L’Unità, che è la medesima cosa. Alessio, il fratello di Anna, fa l’operaio, tira di coca e ruba il rame per far quadrare i conti. Si abbevera al falso erotismo di provincia del night club. Il posto sicuro in acciaieria lo conforta. Ama con trasporto Elena, figlia del dottore della città, che dopo aver fatto esperienze di lavoro altrove, ritorna e diventa impiegata nella stessa fabbrica di Alessio. Il rapporto delle ragazze con i genitori è difficile, forse incolmabile, tuttavia l’acciaio, a conti fatti, resta il collante a garanzia del futuro di un’intera città (fotografata, male, nella sua parte più brutta). Il morto in fabbrica commuove anche i predatori dell’acciaio nell’implosione della bolla finanziaria (dissimulata nel sudario dei loro misfatti a colpi di licenziamenti ricattatori) e in accordo con i loro vassalli — sindacalisti inclusi — dominano sulla città come i ratti su un cumulo di spazzatura.
Il neoliberismo mette tutti d’accordo, padroni e operai. Non ci sono santi che tengono. Sfruttati e sfruttatori non guardano in faccia alla distruzione ambientale né alle morti sul lavoro… ciascuno è deresponsabilizzato e finché dura la sola cosa che conta sono le proprie convenienze in barba alla miseria montante della globalizzazione dei mercati.
Le giovani generazioni di disoccupati restano nei dati Istat e nelle chiacchere televisive dei politici di professione (conniventi con gli affari sporchi del Palazzo). La lezione della fabbrica di morte di Taranto insegna (dove rassegnazione e sottomissione degli operai ai padroni dello stabilimento e ai faccendieri della politica sembra toccare gli stilemi della farsa). A questo proposito ci piace riportare quanto afferma in un intervista rilasciata a Venezia Today dall’ attore Michele Riondino (tarantino), che interpreta Alessio nel film Acciaio: “Quello che è cambiato ultimamente verso l’ Ilva è l’attenzione dei media. Si parla di bustarelle o intercettazioni, ma in realtà sono tutte cose che a Taranto tutti sanno bene. Non c’è politica che si interessi davvero del problema. La famiglia Riva si è schierata con ogni parte politica, con la chiesa e con i giornali così non ci resta che strappare la scheda elettorale. Potrebbe sembrare un segno non costruttivo, ma secondo me è un segnale che si può dare alla mia parte politica che non è mai stata al potere”. Ricordiamolo: la salute dei cittadini fa parte dei servizi pubblici, la cui protezione e gratuità dovrebbe essere garantita. Le mafie della politica identificano la persona con il gregge e il parlamento è un covo di serpi in attesa che venga schiacciata loro la testa!
Porca puttana! Bisogna proprio essere dei coglioni o non aver niente di meglio da fare per vedere un film (o leggere un libro) che parla di queste cose come fossero la realtà… qui la filosofia da zuccherificio impera e l’acciaio è il solo responsabile dell’ incomprensione tra padri e figli… l’aridità della politica istituzionale, le vessazioni dei padroni della fabbrica, l’inquinamento ambientale vero, le lotte della classe operaia (vinta ma non arresa) restano fuori… al limite dell’indecenza creativa… il confetto adolescenziale è servito.
La sceneggiatura di Acciaio è di Mordini, Giulia Calenda (e Silvia Avallone)… i luoghi comuni si sprecano… le banalità figurative, anche. La fotografia di Marco Onorato è molto televisiva, da sceneggiato in prima serata… tutto è ben edulcorato, i frammenti della fabbrica poi sembrano tratti da una pubblicità del Mulino Bianco (manca solo la faccia un po’ tronfia di Antonio Banderas che parla con una gallina a fare da specchio per l’educazione delle masse all’acquisto di un biscotto). Il montaggio di Marco Spoletini e Jacopo Quadri è inesistente, lento, accompagna le sequenze senza un’invettiva strutturale. Della scenografia di Luciano Ricceri e dei costumi di Ursula Patzak, meglio lasciar perdere (roba da centro commerciale). Riuscita invece la scelta degli attori. Michele Riondino è bravo, sostenuto da un certo fascino proletario che utilizza bene e Vittoria Puccini, una faccia bella, fin troppo malinconica, lavorano senza troppi estetismi, e insieme alla freschezza giovanile, quasi selvatica di Matilde Giannini e Anna Bellezza impediscono l’uscita dal cinema. Restiamo convinti però che una passeggiata a Cala Moresca [un sentiero in un parco naturale di Piombino], una birra all’osteria con gli amici a cantare “Bella ciao” o fare l’amore (omosessuale o lesbico è la medesima cosa) su una spiaggia di fronte all’isola d’Elba è senz’altro un modo migliore di occupare il proprio tempo.