La fotografia randagia di un flâneur, Miroslav Tichý

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Pino Bertelli

PIOMBINO 6 giug­no 2016

ELOGIO DELLIMPERFEZIONE
NELLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR

Il tem­po di una mia passeg­gia­ta deter­mi­na quel­lo che voglio fotogra­fare…
Io sono un pro­fe­ta del­la deca­den­za e un pio­niere del caos,
per­ché solo dal caos è pos­si­bile che emer­ga qual­cosa di nuo­vo…
Il tuo pen­siero è trop­po astrat­to! la fotografia è qual­cosa di con­cre­to.
La fotografia è percezione, sono gli occhi che intrave­di, e suc­cede così velo­ce­mente che potresti non vedere
pro­prio nul­la! Per rag­giun­gere questo, ti serve innanz­i­tut­to una pes­si­ma macchi­na fotografi­ca!…
Pri­ma di tut­to è nec­es­sario avere una macchi­na fotografi­ca sca­dente…
Se vuoi essere famoso, è nec­es­sario fare qual­cosa peg­gio di chi­unque altro al mon­do…
Tut­ti i dis­eg­ni sono già sta­ti dis­eg­nati, tut­ti i dip­in­ti sono già sta­ti dip­in­ti, cos’era rimas­to per me?”
Miroslav Tichý

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I. SULLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR

Bisogna amar­la molto la fotografia, per vol­er­la dis­trug­gere… la coscien­za del­la fotografia dom­i­nante è coscien­za del mito che ne con­segue… la cre­ativ­ità lib­er­a­ta dai cena­coli del­lo spet­ta­co­lo è per essen­za riv­o­luzionar­ia. “La fun­zione del­lo spet­ta­co­lo ide­o­logi­co, artis­ti­co, cul­tur­ale, con­siste nel trasfor­mare i lupi del­la spon­taneità in pas­tori del sapere e del­la bellez­za” (Raoul Vaneigem) (1) con­dan­nati a morte. Di fotografi del con­sen­so sono las­tri­cati gli annali e le antolo­gie del­la fotografia inseg­na­ta, gal­leris­ti­ca o muse­ale… la sto­ria li con­ser­va così per­fet­ta­mente nel­la gela­te­ria del­la loro dura­ta che si dimen­ti­ca di leg­gere o inten­dere, meglio anco­ra, di com­pren­dere la messe di banal­ità sulle quali ogni fotografo (non impor­ta che sia di suc­ces­so, anche un fotoam­a­tore con la spoc­chia impren­di­to­ri­ale fa lo stes­so) ha dirit­to a un pos­to nel con­for­to­rio dell’imbecillità. Ogni apoc­alisse fotografi­ca è bel­la di una bellez­za uccisa o del suo con­trario! Ogni sto­ria va rifat­ta al rovescio… i ribel­li non han­no bisog­no di conoscer­si per pen­sare la stes­sa cosa! la liq­uidazione del­la civiltà paras­si­taria (finanziaria, ide­o­log­i­ca, reli­giosa, sapien­ziale) non meri­ta essere in alcun modo dife­sa ma va aiu­ta­ta

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a cadere. La fotografia, tut­ta la fotografia, o attende alla lib­ertà dell’uomo o è il boia che lo impic­ca.
Sul­la fotografia dell’imperfezione. Le immag­i­ni dell’imperfezione esp­ri­mono una fare-fotografia che smaschera le ipocrisie del­la fotografia come apolo­gia del bel­lo e toglie i veli all’avvenimento, alla maschera, al ruo­lo… risveg­lia l’estraniamento brechtiano del­la pre­sen­za che lo obbli­ga a pren­dere deci­sioni e comu­ni­care conoscen­ze e argo­men­tazioni… la fotografia dell’imperfezione è l’immagine roves­ci­a­ta del­la realtà pros­ti­tui­ta alle cod­i­fi­cazioni del mer­ca­to dell’arte e del­la polit­i­ca. “La prete­sa di fare arte è sem­pre sta­ta la pre­rog­a­ti­va dei mer­can­ti di fotografie” (Gisèle Fre­und). Ora toc­ca ai fotografi dell’imperfezione a fare del­la fotografia mil­lan­ta­ta la cloa­ca di tutte le stu­pid­ità fan­tas­mate come suc­ces­so artis­ti­co. La fotografia non pen­sa quel­lo che sa, può pen­sare soltan­to quel­lo che igno­ra. L’ignoranza del sapere è immen­sa! Il divenire degli spir­i­ti liberi è nel­la fotografia dell’indignazione! Sot­to il sole del­la fotografia palu­da­ta tri­on­fa una pri­mav­era di carogne.
Da qualche parte abbi­amo scrit­to: “La Bellez­za non può entrare nell’arte se lo spir­i­to dell’individuo non è anco­ra­to alla sua opera e non riflette la decostruzione del sacro. La Bellez­za ha a che fare con la nuda anar­chia dell’immaginazione… la via alla bellez­za com­in­cia nell’incontro d’amore tra le gen­ti… cam­minare insieme alla Bellez­za sig­nifi­ca oppor­si a tut­to quan­to si mostra come negazione del piacere o rit­uale del puri­tanes­i­mo mer­can­tile delle idee”. La bellez­za dell’imperfezione (in fotografia e dap­per­tut­to) si schi­ude alla veridic­ità del suo dolore e fa del­la fierez­za il luo­go di pub­bli­co pas­sag­gio, come pos­si­amo vedere e restare abbagliati nel­la poet­i­ca lib­er­taria e lib­erti­na delle fotografie di Miroslav Tichý. La fotografia dell’imperfezione sboc­cia nel mon­do con il bene dei giusti e com­bat­te — con tut­ti i mezzi nec­es­sari — l’origine del male.

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Un’annotazione fuori mar­gine. Miroslav Tichý è un clochard, un vagabon­do, un bar­bone ritenu­to da molti folle, dis­a­dat­ta­to, un pezzente ed invece era un poeta del­la fotografia di stra­da, diret­ta (non quel­la banal­iz­za­ta nel pit­to­ri­al­is­mo manicheista di Alfred Stieglitz, s’intende). Tichý nasce a Kyjov nel 1926, in Moravia (al tem­po Cecoslo­vac­chia), si trasferisce a Pra­ga nel 1945 per iscriver­si all’accademia d’arte e sulle cor­ren­ti delle avan­guardie artis­tiche del tem­po inizia a lavo­rare come pit­tore e dis­eg­na­tore. Nel 1948 il Par­ti­to Comu­nista sale al potere… la Cecoslo­vac­chia si dichiara “democrazia popo­lare” e diven­ta parte dell’impero sovi­eti­co… e sec­on­do i prin­cipi marx­isti-lenin­isti-stal­in­isti con­sol­i­dati, chi non sta dal­la parte del potere comu­nista viene bas­to­na­to, but­ta­to in galera o elim­i­na­to. I pro­le­tari ven­gono cat­e­chiz­za­ti dal regime e gli artisti devono cel­e­brare l’Uomo Sovi­eti­co e imbal­samare nel mito Stal­in i suoi geno­ci­di. All’accademia d’arte di Pra­ga i pro­fes­sori non allineati sono cac­ciati, gli stu­den­ti dis­si­den­ti fat­ti sparire nelle seg­rete del­la polizia polit­i­ca o get­tati nel fiume Mol­da­va… hai più for­tu­nati toc­ca il man­i­comio… come è suc­ces­so a Miroslav Tichý.
Negli anni ’60 Tichý face­va parte del col­let­ti­vo artis­ti­co Brněn­ská Pět­ka (Brno Five), ostile all’impalcatura crim­i­nale comu­nista, viene arresta­to, rinchiu­so in carcere e in cliniche psichi­atriche… intan­to scop­pia la Pri­mav­era di Pra­ga (1968) e l’armata rossa reprime la con­tes­tazione popo­lare con i car­ri armati (come ave­va fat­to a Budapest nel 1956)… il Par­ti­to comu­nista ital­iano, nat­u­ral­mente, sta dal­la parte degli assas­si­ni. La seduzione del potere ci rab­bri­v­idisce… come la san­tità e l’eroismo sono altret­tante forme di man­can­za di tal­en­to. I malati di sper­an­za si richia­mano ad un “uman­is­mo” d’accatto e alle promesse di felic­ità che la negano.

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La salute mena­tale di Tichý è frag­ile, per con­testare la soci­età nel­la quale vive sceglie l’autoesilio, tor­na a vivere a Kyjov… da clochard… in una casetta/baracca fatis­cente. Non possiede nul­la (né lo vuole), solo la sua fan­ta­sia e la lib­ertà degli ulti­mi… si chia­ma fuori dal gio­go sociale… così rein­ven­ta il “gra­do zero del­la fotografia”. Costru­isce foto­camere con com­pen­sato, car­tone, pezzi di plas­ti­ca, lenti prese da mac­chine fotogra­fiche gio­cat­to­lo, lat­tine di bir­ra, plex­i­glas (lavo­ra­to con cenere, den­ti­fricio, car­ta vetra­ta) e por­ta la fotografia dell’imperfezione nel­la stra­da o vicev­er­sa. La fotografia sarebbe intoller­a­bile sen­za i poeti maledet­ti che la bru­ciano. A un cer­to gra­do di dis­obbe­dien­za civile, ogni franchez­za diven­ta inde­cente. Nei doc­u­men­tari che cir­colano in YouTube (Tarzan v důchodě (Miroslav Tichý) — celý doku­ment (2008) di Roman Buxbaum o Bal­lad Of A Dead­man / Miroslav Tichy di David Syl­vian) si res­ta abba­ci­nati dal­la luci­da follia/anomalia di questo artista… lo sguar­do inci­si­vo, la risa­ta sden­ta­ta, i capel­li sporchi, lunghi, da Cristo laico delle dis­cariche… lo inci­dono fuori dal­la men­zogna ammaes­tra­ta del suc­ces­so e non c’è nes­suna iden­ti­fi­cazione d’accesso a un qual­si­asi altare o com­por­ta­men­to che lo decifri oltre la vita dis­a­dat­ta­ta che ha scel­to… la fron­tiera tra fol­lia e autoiso­la­men­to sta nel meglio perder­si nell’ottimismo mod­er­no per meglio ritrovar­si nel­la rad­i­cal­ità del­la pro­pria pre­sen­za nel mon­do.
Il teatro cre­ati­vo di Tichý sono la stazione degli auto­bus, la piaz­za prin­ci­pale, i gia­r­di­ni pub­bli­ci… strade, parchi, rive dei fiu­mi… ruba ciò che può alla quo­tid­i­an­ità di Kyjov. La visione è diret­ta, quel­la del voyeur, del lib­erti­no, dell’anar­ca che non vuole l’amore di Cristo né l’odio degli uomi­ni, ma solo la gius­tizia nec­es­saria che non pas­sa dal­la car­ità del per­dono ma dal­la forza del riscat­to cre­ati­vo. In modo par­ti­co­lare “scru­ta” le donne… le “denu­da” sen­za oltrag­gia­r­le e costru­isce un flo­ri­le­gio di bellez­za dell’umano che ha pochi prece­den­ti nel­la sto­ri­ografia fotografi­ca. Il libro di Gian­fran­co San­guinet­ti, Miroslav Tichý: Les Formes du Vrai / Forms of Truth (2011) non è solo un trib­u­to dovu­to a un fotografo di genio… lo scrit­to di San­guinet­ti che accom­pa­gna le immag­i­ni di Tichy schi­ude lo sce­nario ereti­cale di un fab­bri­ca­tore d’immagini che sta al

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mar­gine del­la fotografia, poiché ne riven­di­ca la fine. Per avere un pos­to di rilie­vo nel­la fotografia, bisogna essere com­me­di­anti, rispettare il mer­let­to delle idee e far­si por­ta­tori di fal­si prob­le­mi. L’improntitudine di una sovver­sione sen­za rimpianti è l’ultima paro­la di una civiltà che si speg­ne.
Il collezion­ista svizze­ro Roman Buxbaum, sco­pre la fotografia del­la spaz­zatu­ra di Tichý negli anni ’90 e il fotografo-bar­bone viene inclu­so nel­la bien­nale di Siviglia del 2004, cura­ta da Har­ald Szee­mann, criti­co e stori­co dell’arte. Da quel momen­to, come dicono, Tichy — acquisì fama a liv­el­lo mon­di­ale e le sue opere furono esposte a Madrid, Pal­ma di Maior­ca, Pari­gi e pres­so la pres­ti­giosa gal­le­ria ICP di New York —. Va det­to: come sap­pi­amo il mer­ca­to recu­pera tut­to, anche gli avanzi di galera, se ven­dono… e forse anche l’erotismo imper­fet­to di Tichý finirà sulle pareti dei salot­ti buoni o negli scaf­fali dei cen­tri com­mer­ciali… tut­tavia non sarà facile dis­sertare sul­la sua arte nell’ora del tè. Tut­to ciò che

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non accetta l’esistenza in quan­to tale con­fi­na con il dis­prez­zo per l’ordine cos­ti­tu­ito. Tichý muore il 12 Aprile del 2011 a Kyjov. Las­cia in ered­ità una car­tografia fotografi­ca che esprime la visione dell’imperfezione e l’immaginale dell’erotismo tra i più alti (cer­to il più fuori gio­co) del ‘900. Scom­pare l’uomo ma res­ta la sua opera a tes­ti­mo­ni­are che la sto­ria è una sfi­la­ta di fal­sità assolute, una suc­ces­sione di tem­pli innalza­ti a pretesto del più arma­to, un avvil­i­men­to del­la conoscen­za dinanzi ai sim­u­lacri del dominio dell’uomo sull’uomo.

II. ELOGIO DELLIMPERFEZIONE SULLA FOTOGRAFIA DELLA SPAZZATURA

La fotografia che non è in dife­sa delle cause perse non serve a niente… per man­i­fes­tar­si la fotografia esige la ver­ità e spes­so vi soc­combe, ma non ces­sa di dis­sem­inare ai quat­tro ven­ti del­la ter­ra la sua vital­ità e utopia lib­er­taria… la con­dizione esisten­ziale del­la fotografia del­la flâner­ie o fotografia di stra­da, non è quel­la che si fa PER la stra­da ma che affab­u­la un’utopia delle situ­azioni NELLA stra­da, smaschera i luoghi comu­ni e la stu­pid­ità sui quali si sosten­gono reli­gioni, par­ti­ti, economie, cul­ture… è un’invettiva con­tro l’impostura isti­tuzionale che rende il vero che

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uccide la vita una scenografia da operetta (ave­va­mo scrit­to nel nos­tro mole­sk­ine, in una deri­va fotografi­ca a New York nel 2010)2. In gen­erale, la fotografia è un avvil­i­men­to dell’anima… anche quan­do si allon­tana dal­la stu­pid­ità, la fotografia rimane assogget­ta­ta agli ingan­ni infan­tili o del mer­ci­mo­nio che la deter­mi­nano. Il bisog­no di con­sen­so e di suc­ces­so dei fotografi tri­on­fa sul­la medi­oc­rità e sul ridi­co­lo. La capac­ità di ado­razione del­la fotografia ver­so i respon­s­abili di tut­ti cri­m­i­ni impuni­ti è sovente un’impostura o un tradi­men­to: c’è sem­pre una definizione dell’arte del­la fotografia all’origine di un tem­pio del­la con­fes­sione, dell’assoluzione o dell’impiccagione… e non c’è (2)  for­ma d’intransigenza

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ide­o­log­i­ca, sacrale o mer­can­tile che non riv­eli l’imbecillità dell’entusiasmo.
La scrit­tura fotografi­ca di Miroslav Tichý è quel­la di un flâneur, di un filoso­fo del mar­gine, di un lib­erti­no che cer­ca nel­la stra­da l’ima­go (rap­p­re­sen­tazione o immag­ine incon­scia) di momen­ti sve­lati e si legge in con­trap­po­sizione alle norme sociali… è il diario di un’ossessione erot­i­ca, anche… la con­statazione che l’immaginario dal vero non nasce da una macchi­na fotografi­ca (quale che sia) ma dal­lo sguar­do imper­ti­nente che sta dietro ques­ta scat­o­la mag­i­ca. La scrit­tura fotografi­ca di Tichý è un per­cor­so di ten­tazioni e di ver­tig­i­ni dis­per­si nel­la cli­ma­tiz­zazione dell’incompiuto… una sor­ta di arche­olo­gia dei sen­ti­men­ti che tra­boc­cano di vita vera… c’è Niezsche, Baude­laire, Ben­jamin, finan­co Pasoli­ni in quelle fotografie randagie, scor­ti­cate, dis­per­ate, anche… la fotografia muore quan­do tollera ver­ità che la escludono.

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Le derive fotogra­fiche di Tichý sono sedu­cen­ti… scat­ta ciò che lo imp­ri­giona… l’erotismo ruba­to e la bellez­za fugace di un cor­po di don­na si con­figu­ra nell’inquadratura sbi­len­ca, nel rap­por­to emozionale, nel modo di maneg­gia­re la foto­cam­era (come già det­to, uno stru­men­to fat­to con plas­ti­ca, car­tone, col­la, nas­tro isolante e lenti trovate nei cas­soni dell’immondizia) e ren­der­la invis­i­bile o nem­meno cred­i­bile a quan­ti si fan­no com­pli­ci di questo sudi­cio bar­bone e si met­tono in posa per il ritrat­to. Al fon­do delle immag­i­ni di Tichý c’è una “ruvid­ità fig­u­ra­ti­va” non pri­va di riman­di alla decostruzione dell’arte pro­pri al dada, sur­re­al­is­mo, let­tris­mo o più anco­ra alla costruzione delle situ­azioni dell’Internazionale Situ­azion­ista (3). Ciò che cam­bia il modo di vedere la vita è molto più impor­tante di ciò che cam­bia la nos­tra maniera di vedere la pit­tura, il cin­e­ma, la fotografia, le parole, dice­vano i situ­azion­isti… lo sposta­men­to sen­za scopo del flâneur si fon­da sul gio­co d’incontri dove niente è pre­so sul serio è tut­to diven­ta una procla­mazione di bellez­za e un invi­to a resp­in­gere dap­per­tut­to l’infelicità.
Non c’è impu­di­cizia nei nudi slab­brati di Tichý… più o meno rubati all’istante… ai bor­di di un fiume, al lim­itare di un bosco o nelle gambe (appe­na scop­erte) che spin­gono una bici­clet­ta… in mas­si­ma parte sono le donne che atti­ra­no la sua atten­zione… le inquadra di spalle, men­tre si aggius­tano i capel­li, cam­mi­nano in alle­grez­za per stra­da… o cer­ca la com­plic­ità frontale di ragazz­ine che las­ciano la loro fres­chez­za nel­la foto­cam­era di lat­ta del fotografo di  Kyjov.

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Il ritrat­to di una ragazz­i­na incol­la­to su un pez­zo di car­tone (sbia­di­to) è un aut­en­ti­co cap­ola­voro… la ragazz­i­na guar­da in macchi­na in maniera decisa, sfronta­ta, ripresa qua­si di taglio… l’immagine è mossa, sfo­ca­ta, tut­tavia con­tiene una bellez­za ever­si­va di non poco con­tro… la poet­i­ca dell’imperfezione di Tichý qui toc­ca le forme più alte dell’incompiuto… il fotografo inter­viene sul viso del­la ragazz­i­na, trat­teggia con una biro gli occhi, i capel­li, il maglion­ci­no nero… la bellez­za del­la sua mal­in­co­nia è pari al suo des­ti­no di disin­gan­na­to. La leggen­da dice che Tichý vagabon­da­va per le strade di Kyjov in cer­ca dei cen­to scat­ti da fare ogni giorno, e ne fa migli­a­ia, specie tra il 1960 e il 1985… le fotografie sono spes­so mosse, sfo­cate, male esposte, svilup­pate in cat­tiv­ità (una vas­cac­cia da bag­no, una bacinel­la ammac­ca­ta, un vaso da notte),

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mac­chi­ate, graf­fi­ate… si vedono anche le impronte delle sue dita… tut­tavia queste imper­fezioni fuori­escono da una visione poet­i­ca del­la realtà che le rende estrema­mente sin­go­lari se non uniche. A vedere con cura certe immag­i­ni di gio­vani donne in cos­tume che pren­dono il sole sull’erba, riprese di spalle più che anon­ime o il nudo di don­na con le gia­r­ret­tiere… immer­so nel buio e aper­to alla sto­ria del pec­ca­to riven­di­ca­to alla maniera di Bel­locq… si res­ta stupi­ti di tan­ta nobil­ità architet­turale e pre­sa d’eternità del momen­to vis­su­to. È la bellez­za dell’imperfezione che crea la poe­sia e come sap­pi­amo dagli antichi gre­ci, la bellez­za con­tiene anche la gius­tizia.

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C’è un’immagine che riman­da diret­ta­mente al nudo di Hedy Lamarr (Hed­wig Eva Maria Kiesler) nel film Estasi (1933) di Gus­tav Machatý (gira­to a Vien­na e a Pra­ga)… è la pri­ma sce­na di nudo inte­grale nel cin­e­ma… ma a Tichý bas­ta una don­na in cos­tume bag­na­ta dall’acqua del fiume per ricor­dare non solo la bellez­za ignu­da di Hedy Lamarr ma più anco­ra un’etica atea, una morale sen­za Dio né Sta­to che deci­dono cos’è il bene e cosa il male. Ad ogni atto gen­er­a­to dal deside­rio, suc­cede l’incantamento di una riv­e­lazione improvvisa e ciò che con­ta è l’estasi del vision­ario, non i suoi ragion­a­men­ti.
Le belle fotografie, come si dice, pos­sono avere come cor­nice solo il vero che nasce dall’aristocrazia del dolore che con­trasta i deliri col­let­tivi e come sca­tu­rig­ine solo la lib­ertà come atto di trasfor­mazione del reale tra­di­to… la fotografia dell’incompiuto è una crit­i­ca del­la sep­a­razione, del­la negazione dei ruoli, di ogni tipo di spe­cial­iz­zazione come detri­to o for­ma com­pi­u­ta dell’alienazione totale del cap­i­tal­is­mo paras­si­tario. Con­tro il benessere quan­ti­ta­ti­vo del­lo spet­ta­co­lo dif­fu­so (l’avanzare delle tec­nolo­gie in mano ai saprof­i­ti del­la comu­ni­cazione) e del­lo spet­ta­co­lo con­cen­tra­to (la dit­tatu­ra del mer­ca­to attra­ver­so le manipo­lazioni dei par­ti­ti e dei gov­erni)… ricor­diamo­lo, se ce ne fos­se anco­ra bisog­no: “Lo spet­ta­co­lo è il dis­cor­so inin­ter­rot­to che l’ordine pre­sente tiene su se stes­so, il suo monol­o­go elo­gia­ti­vo è l’autoritratto del potere all’epoca del­la

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ges­tione total­i­taria delle con­dizioni di esisten­za… lo spet­ta­co­lo non è un insieme di immag­i­ni, ma un rap­por­to sociale fra indi­vidui, medi­a­to dalle immag­i­ni… Lo spet­ta­co­lo è il cap­i­tale giun­to a un tal gra­do di accu­mu­lazione da divenire immag­ine” (Guy Debord) (4). Lo spet­ta­co­lo non can­ta solo gli uomi­ni e le loro armi, ma le mer­ci e le loro ped­a­gogie con­sumeriste. Là dove impera lo spet­ta­co­lo, non c’è spazio che nel­la soggezione gen­er­al­iz­za­ta.
La poet­i­ca dell’imperfezione di Tichý esprime una gioia lib­er­taria o una filosofia del­la felic­ità nel­la pas­sione di vivere e nell’incuranza del­la ragione impos­ta… il suo stile di vita è anche quel­lo del suo fare-fotografia… una con­sun­zione di cor­pi e di sog­ni a nutri­men­to di un’anima che ama e non chiede di essere ria­ma­ta… un encomio a vivere che è l’autobiografia dei fat­ti, volut­tà del­la carne, geografia dei sen­ti­men­ti struc­cati… la sua opera è intrisa nel lib­erti­nag­gio dei giusti sprovvisti d’ingiustizia e non coin­cide con un ide­ale di san­tità pre­sen­ta­to come per­fet­to… non c’è nes­suna col­pa nel suo immag­i­nale, sem­mai la grazia che la can­cel­la. Il sen­ti­men­to d’inno­cen­za edidet­i­ca del suo por­tolano fig­u­ra­ti­vo non è incline a buone inten­zioni… l’arte del voyeur da cal­en­dari viene ampu­ta­ta come delit­to e più anco­ra il dis­pendio  del­la fat­tografia pul­sion­ale

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(i richi­a­mi alla fotografia più com­pi­u­ta di Lewis Car­roll sono dovu­ti) impli­ca la deca­den­za del­la dos­solo­gia fotografi­ca e tramite il dirit­to d’inventario del suo rizomario estetico/etico mostra una metafisi­ca dei cor­pi in amore e un’innocenza del­lo stu­pore che ridi­col­iz­zano ogni for­ma di potere.
La fotografia desider­ante di Tichý dis­perde spore d’anarchia nel­la lib­era epi­fa­nia delle pas­sioni e al meglio di un pen­siero dion­isi­a­co che non pie­ga la schiena sot­to il peso delle costrizioni sociali, riven­di­ca il dirit­to all’intelligenza che riget­ta la nos­tal­gia del pas­sato e l’angoscia del divenire. “La bellez­za che non è promes­sa di felic­ità, dev’essere dis­trut­ta” (Inter­nazionale Situ­azion­ista). Il ricat­to dell’utilitarismo model­la il tem­po, lo spazio e la realtà che impedisce di sognare un mon­do più gius­to e più umano, e va scon­fit­to. Le situ­azioni per roves­cia­re l’esistente non si trovano nei lib­ri, nei dis­cor­si politi­ci, nei mer­cati glob­ali, nei ser­moni delle reli­gioni monoteiste ma giran­do in ton­do di notte con­sumati dal fuo­co del­la sovver­sione non sospet­ta… in derive pro­l­un­gate di gran­di gior­nate in cui niente somigli­a­va al giorno pri­ma e attra­ver­so il roves­ci­a­men­to di prospet­ti­va di un mon­do roves­ci­a­to fare del­la lezione, epi­curea, niet­zschi­ana, lib­er­taria una crit­i­ca pro­fon­da del­la sec­o­lar­iz­zazione delle lacrime, costru­ire una fes­ta di avven­i­men­ti rad­i­cali con­tro la quo­tid­i­an­ità dell’impossibile e fare del­la pro­pria vita un’opera d’arte.

(1) Raoul Vaneigem, Trat­ta­to di saper vivere ad uso delle gio­vani gen­er­azioni, Val­lec­chi, 1974
(2) A ritroso. Con queste idee in tes­ta, qualche han­no fa, ho pre­so una man­ci­a­ta di pel­li­cole scadute (poi pas­sate in uno scan­ner da tre sol­di), una map­pa di Berli­no per girare New York (alla maniera dei situ­azion­isti) e insieme a mia moglie e mia figlia siamo andati ad iniziare l’anno nuo­vo nel­la grande mela… nat­u­ral­mente ave­vo in tes­ta la mia maes­tra in TUTTO, Diane Arbus… e pen­sa­vo a lei, a lei soltan­to men­tre fotografa­vo nel Cen­tral Park… ero com­mosso di essere lì… sen­ti­vo i suoi pas­si, il suo fia­to, l’odore di mughet­to che veni­va dai suoi abiti sgual­ci­ti… l’ho vista sul­la fac­cia di un bar­bone dal­la bellez­za ful­mi­nante… e mi ha det­to: “La fotografia non sta nel dis­trug­gere i miti, gli idoli, gli ora­coli… sta nel non crearne mai”. Poi ho ricorda­to che si era uccisa nel 1972, forse per cor­ag­gio, forse per poe­sia, forse per­ché vivere in un mon­do dis­a­bit­u­a­to all’amore, alla fra­ter­nità, alla con­di­vi­sione… è dif­fi­cile quan­to trovare un uomo onesto in par­la­men­to… nul­la è più sospet­to dei par­ti­ti, delle reli­gioni, dell’alta finan­za… sono i nuovi feu­datari e gov­er­nano l’universo col fer­ro e col fuo­co. Amen! e così è.
(3) Inter­nazionale situ­azion­ista 1958–69, Nau­tilus, 1994
(4) Guy Debord, La soci­età del­lo spet­ta­co­lo, Val­lec­chi, 1979

 

Piom­bi­no, dal vico­lo dei gat­ti in amore, 3 volte giug­no, 2016

File 17

Una risposta a “La fotografia randagia di un flâneur, Miroslav Tichý”

  1. Angela Maria Antuono says:

    Adoro Ticky, mi auguro di sbagliare Sem­pre!

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