La storia di un “Bengodi” che non fu eterno

Fiorenzo Bucci

PIOMBINO 15 dicem­bre 2013 — Fioren­zo Buc­ci, alcune set­ti­mane fa, ha scrit­to questo arti­co­lo per una riv­ista fiorenti­na. Lo ripro­poni­amo aggior­na­to con alcune notizie rel­a­tive agli ulti­mi avven­i­men­ti. Ad una minus­co­la impre­sa arti­giana occor­re­vano anni per for­mare
un buon idrauli­co, un otti­mo faleg­name, un mura­tore capace di rive­stire un bag­no o stac­care un nuo­vo edi­fi­cio. Ma bas­ta­va un atti­mo per perder­lo, per van­i­fi­care l’investimento di un lun­go apprendis­ta­to. Il tem­po nec­es­sario a spedire una richi­es­ta di assun­zione nel­la grande fab­bri­ca che tut­to ingloba­va nel mirag­gio di un futuro costru­ito sul benessere e sul­la certez­za.
Piom­bi­no è cresci­u­ta così; con le gran­di nuv­ole di fumo che han­no ammor­ba­to i quartieri nati tra le ciminiere: il Cotone, il Pogget­to. Con la con­vinzione che il Ben­go­di non finisse mai, con la certez­za di una vocazione da pre­des­ti­nati che ha scon­fes­sato per anni qual­si­asi prog­et­to che guardasse ad un’economia alter­na­ti­va rispet­to alla pro­duzione siderur­gi­ca. Lo inseg­na­va perfi­no la sto­ria che, in ques­ta parte mer­av­igliosa del­la cos­ta tir­reni­ca, ave­va da sem­pre priv­i­le­gia­to la lavo­razione del fer­ro. Ma la sto­ria però non ha mai det­to che, oltre alla fab­bri­ca, non dove­va esistere prati­ca­mente nessun’altra risor­sa in un ter­ri­to­rio, per esem­pio, ad alta vocazione tur­is­ti­ca.
Oggi, quan­do una crisi vic­i­na alla cat­a­strofe ci mostra perfi­no un sin­da­co che per protes­ta sale – giac­ca e cra­vat­ta – sul tet­to di un capan­none, tut­to è rimes­so in dis­cus­sione. L’orgoglio e, in qualche caso anche un pizzi­co di pre­sun­zione, non sti­molano l’intonazione di respon­s­abili “mea cul­pa”. E sarebbe il caso. Per­ché i par­ti­ti, mas­si­ma­mente quel­lo ege­mone, non han­no cer­to sub­ì­to ma han­no anzi ampia­mente favorito il fenom­e­no otte­nen­do in cam­bio voti e certezze di intoc­ca­bili pre­vile­gi. Per­ché i sin­da­cati sono cresciu­ti nel­la reit­er­a­ta con­vinzione che un “no” pagasse sem­pre. Per­ché quegli idrauli­ci, quei mura­tori, quei faleg­na­mi che sono usci­ti dalle “famiglie” arti­giane, non han­no dimen­ti­ca­to la loro pro­fes­sione ed han­no arro­tonda­to nelle ore libere colpen­do mor­tal­mente le pic­cole realtà impren­di­to­ri­ali dalle quali spes­so era­no giun­ti allo sta­bil­i­men­to.
E tut­to è rimas­to immutabile perfi­no di fronte al triste spet­ta­co­lo delle “vasche” su Cor­so Italia dove prepen­sion­ati cinquan­tenne han­no “nuo­ta­to” come se anche questo fos­se la nor­mal­ità. E non invece un peri­coloso seg­nale.
ItalsiderLe gran­di indus­trie met­al­lur­giche emis­ero a Piom­bi­no i pri­mi vagi­ti addirit­tura nel 1865. La man­od­opera allo­ra era cos­ti­tui­ta dai detenu­ti, una set­tan­ti­na di dis­graziati impeg­nati in un’attività mas­sacrante dal­la quale anche l’ultimo operaio, rot­to ad ogni fat­i­ca, si tene­va lon­tano. Ma il por­to, le miniera dell’Elba aperte ad ogni sfrut­ta­men­to, la facil­ità di trasporto delle mer­ci las­ci­a­vano pre­sa­gire lo svilup­po che infat­ti ci fu.
Alla fine del sec­o­lo il polo piom­bi­nese era già il più grande com­p­lesso indus­tri­ale ital­iano a ciclo inte­grale per la fab­bri­cazione dell’acciaio. Fu una grande sta­gione di svilup­po che conobbe impor­tan­ti commesse di rotaie da un paese che sta­va costru­en­do la pro­pria rete fer­roviaria. E anche la pri­ma guer­ra mon­di­ale incre­men­tò la fama e la pro­duzione: si arrivò così a 500 ton­nel­late di ghisa al giorno. Si con­tarono 2600 dipen­den­ti, qua­si più di quel­li di oggi. La tec­nolo­gia fu sem­pre d’avanguardia ed il prodot­to di pri­ma qual­ità tan­to che Mus­soli­ni, attra­ver­so l’Iri, fece dell’”Ilva-Acciaierie d’Italia” una grande indus­tria di Sta­to.
ILVA PIOMBINOPara­dos­salmente il dis­as­tro del­la sec­on­da guer­ra mon­di­ale, che dev­astò gli impianti (80% delle strut­ture fu dis­trut­ta) seg­nò, alla fine del con­flit­to, una rinasci­ta che iniz­iò il proces­so di total­iz­zazione dell’economia del­la val­la­ta. La ricostruzione regalò alla cit­tà, ormai com­ple­ta­mente inte­gra­ta nell’area indus­tri­ale, dieci chilometri qua­drati di una fab­bri­ca all’avanguardia, incen­sa­ta dal gov­er­no, benedet­ta dalle forze politiche, agog­na­ta da maes­tranze di ogni tipo. E i fat­ti ali­men­ta­rono le sper­anze: il Gov­er­no pun­tò gran parte delle pro­prie aspet­ta­tive sul­la siderur­gia e gli anni Ses­san­ta furono carat­ter­iz­za­ti da fusioni, incor­po­razioni, nuove intrap­rese: Bag­no­li, Cornigliano, Taran­to, nomi nuovi per sta­bil­i­men­ti da cui ci si aspet­ta­va svilup­po e ric­chez­za.
Si arrivò alla pro­duzione del 55% dell’acciaio di cui ave­va bisog­no la Nazione, dell’80% del­la ghisa, del 56% del lam­i­nati. Fu un suc­ces­so e purtrop­po anche una grande sbor­nia, con l’uno che ali­men­ta­va l’altra, con la polit­i­ca delle parte­ci­pazioni statali che cav­al­cò un destriero con­vin­ta che non potesse mai diventare un ronzi­no.
Intan­to i mer­cati inter­nazion­ali sta­vano osser­van­do e impara­n­do, intan­to Piom­bi­no con­tin­u­a­va a dimen­ti­care tut­to e la mono­cul­tura dell’acciaio face­va nascere anche la Dalmine accan­to alle vec­chie Mag­o­na e Acciaierie. Tre sta­bil­i­men­ti che giun­sero ad assor­bire la stra­grande mag­gio­ran­za del­la man­od­opera del­la Val­la­ta. Non c’era allo­ra famiglia che, diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente, non traesse sosteg­no dalle fab­briche: 10 forse 12 mila addet­ti con l’indotto.
La fine del mil­len­nio giunse attra­ver­so un tur­bil­lon di sigle e di pas­sag­gi di mano fino al Piano Utopia del 1991 nel quale venne con­cepi­to lo sposta­men­to del­la fab­bri­ca con la bonifi­ca delle aree e con la sis­temazione di impianti inno­v­a­tivi. L’Utopia non ali­men­tò nem­meno più le sper­anze e l’arrivo dei bres­ciani del cav­a­lier Lui­gi Luc­chi­ni venne salu­ta­to come un’àncora di salvez­za. Non l’ultima per­ché altre delu­sioni si sta­vano annun­cian­do sul cam­mi­no di quel­la che fu la grande fab­bri­ca dell’acciaio. La Sev­er­stal del rus­so Mor­dashow, l’enorme espo­sizione con le banche, giri di valz­er soci­etari per rimet­tere in pie­di una barac­ca che non regge più il mer­ca­to, la ricer­ca affan­nosa di nuovi com­pra­tori, gli ulti­mi appel­li al gov­er­no Mon­ti, la pre­oc­cu­pazione di oltre 3000 operai, tra fab­bri­ca e indot­to, apparten­gono alle ultime cronache. Al piano del com­mis­sario Pietro Nar­di che deve fare con­tin­u­a­mente i con­ti con bilan­ci che non quad­ra­no e che pro­pone ricette che par­lano di chiusura dell’altoforno, di casse inte­grazione di momen­ti molto più neri di quel­li che si sono fino ad oggi conosciu­ti. Le promesse che, in atte­sa di nuovi impren­di­tori, tut­to resterà come sem­pre e si andrà avan­ti, fat­i­cano ad essere digerite. Ci si affi­da alla sper­an­za ma le leg­gi del mer­ca­to sono più spi­etate del­la sper­an­za. Si par­la di una com­ple­ta rior­ga­niz­zazione tra por­to e fab­briche col rilan­cio di nuove prospet­tive legate al busi­ness del­la rot­ta­mazione delle navi ma la pri­ma nave da demolire, la Con­cor­dia, forse non arriverà mai. I prog­et­ti richiedono tem­pi lunghi che coz­zano invece con esi­gen­ze imme­di­ate di una popo­lazione che anche da noi, com­in­cia davvero a stentare per arrivare a fine mese.
Mai come in queste ore il futuro di una sto­ria lun­ga 150 anni è ter­ri­bil­mente incer­to. Mai come ques­ta vol­ta una val­la­ta si sente povera. Ha det­to di recente Beppe Bar­to­let­ti, operaio e sin­da­cal­ista stori­co delle Acciaierie,: “Sarebbe un dis­as­tro eco­nom­i­co e sociale di pro­porzioni enor­mi”. Innega­bil­mente anche per­ché Piom­bi­no e la Val di Cor­nia altro pane non han­no mai con­cepi­to, sten­tano a con­ser­vare oggi e forse non san­no neanche dove cer­care per il domani.

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